Recensione della prima nazionale di "Tutta la vita davanti" di P. Virzì
26 marzo 2008, di Dimitri Stagnitto
 

L’aula magna del palazzo del rettorato della Sapienza di Roma ha fatto da cornice al nuovo film di Virzì: Tutta la vita davanti. Le sensazioni dopo la visione della pellicola sono ottime: il film scorre piacevole e quasi mai banale trattando un tema molto attuale come il precariato giovanile peraltro in un modo sottile che consente molteplici piani di lettura. Virzì porta la protagonista Marta, neolaureata con lode in filosofia, dapprima di fronte alla lunga serie di porte chiuse che il sistema Italia impone e poi, più che altro per serendipità, alla sua prima (doppia) occupazione di baby sitter e operatrice di call center. Marta si ritrova, fortunatamente, armata di una coscienza critica che non la abbandonerà mai e che la rende di fatto l’eroina del film, in un contesto incentrato sul marketing spinto dove l’unico obiettivo è chiaramente vendere ed accumulare denaro in preda ad una follia dell’accumulo e della "crescita" a tutti i costi propria del capitalismo che porta i dipendenti e gli stessi vertici del’azienda all’alienazione ed i poveri clienti a subire le truffe che l’azienda propina essendosi sviluppata sul modello in cui la vendita stessa è il prodotto di cui il prodotto vero e proprio è solo un pretesto.

Al contempo il film, sfuggendo a retaggi legati alla lotta di classe, trova il modo di criticare anche la parte opposta della barricata: il sindacato. Esattamente come nell’azienda, la figura del sindacalista svolge un lavoro senza prodotto in cui l’unico scopo è perpetuare l’ostilità simbolica verso "il padrone" senza sviluppare criticamente modelli di intervento che risultino davvero costruttivi per il sistema.

Veniamo alle note dolenti: volendo strizzare l’occhio al suo target (più che giusto dal punto di vista commerciale) il film eccede nel sottolineare determinati stereotipi legati al sistema come "muro di gomma" verso la novità apportata dalle nuove generazioni e la pochezza delle retribuzioni per gli stessi e per gli altri "ultimi". Forse in tal senso stride la scena finale con la nonnina che, con 300€ al mese, può permettersi di continuare ad abitare nella sua casetta con giardino a Roma e di offrire pure nel giardino stesso un sostanzioso pasto che va a creare quel simpatico quadretto in cui, nonostante le parche risorse, le generazioni più vecchie sono comunque sempre pronte a coccolare le nuove. Sulla stessa linea un altro messaggio che il film lascia passare perdendo forse una grande occasione: pare infatti che molte operatrici di call center, fuori di quel contesto che sì le sfrutta ma dona loro finalmente un’identità ed un ruolo, pergiunta "produttivo", nel mondo finirebbero per prostituirsi o comunque autodistruggersi. Peccato che il film non si soffermi ad analizzare le cause della mancanza di obiettivi di origine assertiva di questo gruppo di persone e le presenti invece incastrate nello stereotipo che le descrive.

Peccato infine che la protagonista alla fine riesca solo a non annegare nel sistema, nè rovesciandolo, nè soccombendo. Un finale diverso avrebbe forse rinnovato in un nuovo contesto il potente messaggio che riuscì a Milos Forman con "Qualcuno volò sul nido del cuculo": sarebbero bastate davvero poche modifiche e avremmo avuto tra le mani un nuovo capolavoro.

di Dimitri Stagnitto